Il rimodellamento dello spazio urbano, e in primo luogo di quello delle capitali, è un fenomeno comune negli Stati nati dalla disintegrazione dell’URSS.
il cityscape di città come Tbilisi, Batumi, Astana, Ašgabad, Taškent e Mosca è stato infatti oggetto di significative alterazioni, quando non di completi rifacimenti, promossi dalla dirigenza politica dei nuovi Stati.
Ciò non sorprende: come spiega Jurij Lotman, lo spazio architettonico è sempre uno spazio semiotico: esso da un lato plasma il mondo, ma dall’altro è esso stesso il prodotto di un’attività modellizzante che riproduce la visione del mondo di chi lo crea, per cui cambiamenti politico-sociali della portata di quelli del 1989-1991 non potevano non influenzare l’organizzazione e le forme dello spazio urbano. Queste ultime a loro volta svolgono un ruolo attivo nel plasma- re la coscienza individuale e collettiva: lo spazio architettonico urbano non si limita a rispondere alle necessità funzionali di chi lo abita (se e quando a det- te necessità si risponde in modo appropriato), ma è anche, come spiega Ugo Volli sulla scia di Roland Barthes, un «discorso, una pratica significante la quale, però, in ogni momento proietta alle sue spalle un testo». Tale testo è sempre «complesso, stratificato nel tempo e variabile nello spazio, dunque sempre incompiuto» (ibi-dem), giacché esso è luogo di continui conflitti che lo plasmano e inevitabilmente vi lasciano le loro tracce. Il paesaggio urbano va dunque letto «innanzitutto come un testo ideologico, che serve a giustificare e contestualizzare forme di vita e sistemi di potere».
Da qui la necessità da parte del potere di organizzare lo spazio urbano e riplasmarlo in modo che esso produca e riproduca certe narrazioni e ne escluda altre. Nel caso degli Stati post-sovietici, gli sviluppi urbanistici e le nuove imprese architettoniche spesso sono state parte integrante della costruzione ideologica e culturale delle nuove nazioni, trattandosi di modalità assai efficaci per rendere tangibile la ‘rinascita’ della nazione e «naturalizzarla» (cfr. Osborne B., 2008: pp. 1342, 1347), al contempo giustifican- done l’esistenza in quanto Stato e legittimando chi era (e in alcuni casi è ancora, come I. Karimov in Uzbekistan e N. Nazarbaev in Kazakistan) al potere. Non a caso Eric Hob- sbawm, nello spiegare il suo concetto di «invenzione della tradizione», ossia «un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di u- na natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato» e che «laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato», ricorre a un esempio architettonico: la ricostruzione in stile gotico del Parlamento di Londra alla fine del XIX secolo.
L’architettura è infatti un linguaggio estremamente efficace nel plasmare in modo quasi impercettibile quello che Antonio Gramsci definiva «senso comune», vale a di- re «la concezione della vita e la morale più diffusa». Si può affermare che lo spazio urbano costituisca una rappresentazione fisica del concetto foucaultiano di «ordine del discorso» (Foucault M., 1972), considerando il modo in cui una città obbliga i suoi abitanti a seguire certi percorsi piuttosto che altri o a sviluppare certe abitudini sociali piuttosto che altre, a vedere il mondo (in ogni senso) da certe angolazioni piuttosto che da altre.
Di questi sviluppi la città di Kazan’, capitale della Repubblica del Tatarstan (uno degli 83 soggetti che compongono la Federazione Russa), costituisce un esempio quasi para- digmatico. Una lettura ravvicinata del rimodellamento del paesaggio urbano di cui essa è stata oggetto ci offre, come afferma Katherine Graney, la possibilità di farci un’idea chiara del programma politico della dirigenza della Repubblica del Tatarstan e di come quest’ultima vede il paese e la città e vuole che essi vengano percepiti dagli altri (Graney K., 2007: p. 17). Se Mikheil Saakashvili e Saparmurat Nijazov «Turkmenbaşy», ex presidenti della Georgia e del Turkmenistan, avevano cercato rispettivamente di ‘occidentalizzare’ le città georgiane e di ‘orientalizzare’ la capitale turkmena Ašgabad, la dirigenza repubblicana del Tatarstan, e in particolare l’allora presidente Mintimer Šaimiev (1991-2010), il sindaco di Kazan’ Kamil’ Ischakov (1989-2005)3 e l’ideologo del nazionalismo tataro Rafael’ Chaki- mov (consigliere del presidente Šaimiev dal 1991 al 2008, dal 2011 vice-presidente dell’Accademia delle Scienze del Tatarstan e direttore dell’Istituto di Storia di quest’ultima)4 hanno invece seguito una traiettoria più sfaccettata, che rifletteva un’immagine apparentemente plurale (o meglio biculturale) del Tatarstan e della capitale che doveva esserne il simbolo.
A questa immagine sfaccettata di Kazan’ si può applicare il concetto di mito nel senso barthesiano, cioè la «naturalizzazione» di qualcosa che in realtà è una costruzione culturale e storica (Barthes R., 1979). Si tratta di un mito in cui si intrecciano diverse narrazioni: quella di Kazan’ capitale europea; quella di Kazan’ città tatara e quello di Kazan’ come luogo in cui Oriente e Occidente si incontrano e coesistono in pace e armonia. Se però il rimodellamento dello spazio urbano di Kazan’ viene visto nel suo contesto storico-politico, questa identità molteplice risulta essere il prodotto non di un’elaborazione astratta, bensì di situazione politica e sociale in cui la leadership re- pubblicana, proveniente dalla nomenklatura di epoca sovietica, è riuscita a mantenersi al po- tere e a gestire la transizione al capitalismo con grande abilità, talora resistendo alle istanze nazionaliste locali, talora cavalcandole.
Essa ha infatti da un lato colto e rielaborato in maniera reattiva, spesso smussandole, suggestioni e spinte provenienti dal movimento nazionalista tataro, mentre dall’altro ha dovuto far fronte alle pressioni di Mosca, che dopo averla incoraggiata ne ha successivamente limitato la traiettoria centrifuga. Le tre narrazioni suddette sono quindi la risultante di una serie di conflitti e compromessi tra forze e interessi contrastanti di cui il rimodellamento del paesaggio urbano di Kazan’ reca evidenti tracce. Questa politica di rifacimento architettonico della città è stata esaminata da Katherine Graney (2007) che si è occupata del processo e delle modalità della sua attuazione, mentre Nadir Kinossian (2012) si è concentrato su un caso specifico, quello della ‘ricostruzione’ della Moschea Kul-Šarif, e sul ruolo degli attori statali nella produzione di un discorso nazionalista sul patrimonio storico-culturale e sulle relative scelte urbanistico-architettoniche.
Pur attingendo a entrambe le analisi, qui mi occuperò non solo di esaminare nel dettaglio il processo di ‘tatarizzazione’ urbanistico-architettonica di Kazan’ e del contesto che lo ha generato, ma anche del modo in cui esso ‘produce’ senso. Alla base della presente analisi ci sono da un lato l’approccio teorico al nazionalismo che considera la nazione una costruzio- ne culturale tutta moderna, in particolare il concetto andersoniano di «comunità immagina- ta» (Anderson B., 2009), dall’altro un approccio semiotico che si accosta al rifacimento ur- banistico-architettonico di Kazan’ come produzione di un testo urbano di cui privilegia il carattere narrativo, al fine di ritrovare «al di sotto della superficie espressiva del testo […] una sintassi e una semantica» (Volli U., 2005: p. 10). Poiché un testo può diventare semioti- camente produttivo solo se inquadrato nel suo contesto specifico, le singole componenti di questo testo urbano saranno ‘lette’ come parte integrante del complesso urbano in cui sono poste (Lotman Ju., 2010: p. 682) e come prodotto di uno specifico contesto storico, politi- co e sociale.
Sarà proprio da quest’ultimo che partirà l’analisi, onde cogliere in che modo le tre
narrazioni individuate da Graney si siano sviluppate e intrecciate e abbiano trovato una propria sintesi materiale nel rifacimento urbanistico e architettonico di Kazan’: nella prima parte mostrerò come esse siano state frutto delle pressioni del movimento nazionalista per la riaffermazione di una ‘tatarità’ in chiave etnicista (frutto delle politiche delle nazionalità e dall’etnologia sovietiche), appropriata e rilanciata durante la transizione da una dirigenza ex comunista in cerca di legittimità, e dall’altro della frustrazione delle spinte indipendentiste e dalla successiva necessità da parte di questa dirigenza di rafforzare le proprie credenziali na- zionaliste con un’enfatica opera di ‘tatarizzazione’ dello spazio pubblico. Allo stesso tempo, però, quest’agire ha dovuto tenere conto del carattere multietnico del Tatarstan e dei mutati rapporti di forza con Mosca, per cui la ‘tatarizzazione’ di Kazan’ non è stata totale, ma si è dovuta configurare come una forma di bilanciamento della presenza architettonica ‘russa’ con quella ‘tatara’, anche se quest’ultima ha conservato una particolare preminenza. Nella seconda parte passo ad analizzare come questa ‘tatarizzazione’ si sia manifestata material- mente nelle scelte architettoniche ed urbanistiche fatte nel periodo della presidenza Šaimiev (1991-2010), e in che modo queste abbiano agito come meccanismi semiotici al fine di pro- durre un immagine dei tatari come ‘nazione orientale’ tramite a) l’enfatizzazione diretta di un’eredità islamica rivisitata (restauro delle vecchie moschee, costruzione della nuova Mo- schea Kul-Šarif); b) una politica monumentale che glorifica un passato mitologizzato che rivendica l’eredità dei Bulgari del Volga e del Khanato di Kazan’; c) l’inserimento in edifici moderni di segni architettonici intrisi di allusioni orientaleggianti, in effetti una vera e pro- pria forma di ‘auto-orientalizzazione’.
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